Dell’artista Moebius non c’è nulla che non sia già stato detto e che non verrà ribadito in questi giorni. Voglio condividere questo episodio personale che invece secondo me racconta la grandezza dell’uomo.

Expocartoon del 1999, Moebius ospite d’onore. Sabato sera, cena offerta dagli organizzatori agli autori e agli addetti del settore. Io ero al tavolo riservato alla Bonelli, assieme ad alcuni colleghi, tra i quali l’amico Federico Memola. Qualche metro più in là, il tavolo di Moebius. Durante la cena, inevitabilmente parlammo di lui, di come la sua arte ci avesse colpito, segnato, ispirato. Confessai agli altri di non avere il coraggio di andare a stringergli la mano, sebbene desiderassi farlo. Cercavo perfino di evitare di incrociare il suo sguardo, sotto il peso di un timore reverenziale ed una sciocca timidezza, di quelle che ti paralizzano e ti fanno apparire stupido e persino sgarbato. La cena proseguì. Tra una portata e l’altra ad un tratto mi sentii toccare una spalla. Era Federico che, senza che io lo notassi, era andato al tavolo di Moebius e, raccontandogli forse del povero fumettista timido, lo aveva sfacciatamente condotto proprio davanti a me. “Bhè, adesso è qui, digli qualcosa!” Ricordo vagamente la frase dell’amico che mi esortava ad uscire dalla paralisi e dall’imbarazzo che mi colpirono di fronte al Maestro. Non spiaccicavo una parola di francese, mi rivolsi a Federico, perchè traducesse e perchè sarebbe stato sacrlilego dal mio punto di vista rivolgermi direttamente al mito. “Digli… digli che mi ha fatto sognare!” Balbettai, rosso in volto e con le gocce di sudore freddo sulla schiena. Jean Giraud, Moebius, non ebbe bisogno della traduzione, capì. Si avvicinò e semplicemente mi diede un bacio sulla guancia, come un padre affettuoso e premuroso con uno dei suoi figli.

Potrei fermarmi qui, ma c’è un’appendice di quella serata che aggiunge qualcosa: a fine cena Moebius prese a girare per i tavoli con un piccolo bloc notes, che porse ai disegnatori presenti pregando tutti di fargli un disegnino, un ricordo che avrebbe donato alla moglie. Così, quando fu il mio turno, disegnai incredulo e tremante un piccolo Jonathan Steele nel taccuino del Maestro.

Questo era l’uomo che ebbi la fortuna di conoscere.

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